domenica 20 dicembre 2015

«La politica non serve a niente»: Stefano Feltri e l'impotenza dei governi

Da quando c’è Matteo Renzi presidente del Consiglio si è affermata una rassicurante idea di come uscire dalla crisi. «Bisogna che l’Italia torni a fare l’Italia» ripete il premier, per poi partire con l’elenco di tutto quello che abbiamo di «bello» da offrire al mondo, dal cibo – celebrato a Milano all’Expo 2015 e sugli scaffali dei negozi Eataly del renziano Oscar Farinetti – all’arte e alla cultura, che lui intende sempre come insieme di monumenti, quadri, strade, palazzi, chiese. I libri e le idee sono fuori dal suo orizzonte. Il futuro dell’Italia passa da lì, sembra intendere Renzi, dalla trasformazione dell’intero Paese in una specie di grande museo degli Uffizi, simbolo fiorentino della cultura italiana esposta al mondo.

Una strategia che legittima una certa irritazione: immaginare un Paese fondato sul lardo di colonnata può essere frustrante mentre altrove si progetta uno sviluppo attorno ai big data e alle intelligenze artificiali. Ma potrebbe anche essere un esercizio di realismo. Perché forse non ci restano molte alternative. A Berlino ho incontrato l’economista brasiliano Alfredo Valladão, docente della Paris School of International Affairs e autore di Masters of the algorithms, un paper nel quale ha analizzato le implicazioni geopolitiche della nuova economia digitale. Parlando di Paesi come l’Italia, ha espresso due concetti efficaci: sono economie destinate al modello chicken flight, il volo della gallina, perché come quel pennuto agitano le ali, si alzano di qualche centimetro da terra ma restano soltanto un’imitazione goffa degli uccelli veri. Mentre gli altri mercati nazionali volano davvero, le economie chicken flight si limitano a svolazzare per pochi metri, senza ambizioni e forti soltanto di prodotti good enough, abbastanza buoni, quelli di cui ci sarà sempre bisogno ma che la concorrenza ha reso poco remunerativi e che non hanno molta possibilità di evolversi. In questi Paesi, spiega Valladão, “i governi potrebbero trovarsi incapaci di continuare a redistribuire le risorse come i loro cittadini si aspettano”. Nello scenario futuro comanderanno «i signori degli algoritmi», agli altri andranno le briciole.

Quando Henry Ford ha imposto la catena di montaggio come standard produttivo, ha anche creato le condizioni per costruire il moderno nazionalismo: masse di individui che si guadagnano da vivere svolgendo lavori molto simili che fruttano redditi molto simili per comprare prodotti e servizi altrettanto simili. Un patriottismo economico che permette anche di imporre una nuova generazione di leader politici e di élite manageriali, capaci di interpretare le domande che arrivano da una società non più agricola, sempre più urbana, omogenea e ambiziosa, che si aspetta una notevole mobilità sociale (i figli che devono vivere meglio dei genitori). E che per veder realizzate queste aspettative è disposta a pagare le tasse necessarie a costruire le infrastrutture di un modello di sviluppo che sembra portare benefici a tutti ma soprattutto ai più poveri.

La Grande depressione e le due guerre mondiali sono deviazioni temporanee in una traiettoria altrimenti armoniosa che sembra rassicurare chi invece vedeva nel modello fordista della «produzione di massa per un consumo di massa» un limite intrinseco: non prevede mai il raggiungimento di uno status quo, di un tetto. Per sopravvivere ha bisogno di una continua espansione omogenea tanto dei consumi che della produzione, altrimenti si passa in un attimo dall’occupazione di massa alla disoccupazione di massa. Ci sono soltanto due strade da seguire: o trovare nuovi consumatori o spingere quelli esistenti a consumare sempre di più. E se non hanno reddito sufficiente, bisognerà incentivarli a prendere a prestito. Serve quindi anche un sistema finanziario efficiente che sovvenzioni consumi e investimenti.

Gli anni noti come «trenta gloriosi», dal 1945 al 1973, si chiudono con il primo shock petrolifero. E non è una mera coincidenza che due anni dopo nasca il G6, il coordinamento delle più grandi economie del mondo, Unione sovietica esclusa: una governance a livello nazionale non è più sufficiente per garantire quell’equilibrio, più precario del previsto. Le aziende capiscono che non possono più limitarsi al proprio mercato domestico di riferimento abituale, devono espandersi cercando nuove basi di consumatori e altre vie per aumentare efficienza e produttività: per sopravvivere sono costrette a scegliere una dimensione multinazionale. Dal lato dell’offerta c’è quindi uno slancio a diventare produttori globali, ma la figura del «consumatore globale» ancora non si è sviluppata del tutto. C’è ancora la cortina di ferro.

Bisogna aspettare il 1989, la caduta del muro di Berlino e la ricomposizione dell’Europa per avere finalmente il campo da gioco di cui le multinazionali avevano bisogno: centinaia di milioni di consumatori finalmente liberi di poter avere gli stessi gusti e le stesse mode, di guardare gli stessi film (americani) e di desiderare di mangiare gli stessi hamburger e indossare le stesse scarpe. Il modello di Henry Ford rinasce, con una standardizzazione dei consumi globale.

Poi arriva la grande crisi globale del 2008, innescata proprio dal fatto che i «consumatori di ultima istanza», cioè gli americani che continuavano a indebitarsi per migliorare il proprio tenore di vita, smettono di garantire quella domanda crescente a cui tutta la catena produttiva globale si era abituata. Ancora una volta, come nelle altre crisi, c’è uno scatto della governance globale, nel tentativo di dare una risposta politica al livello cui si concentrano i problemi. Nel 2009, infatti, per volontà del presidente americano George W. Bush viene rivitalizzata un’istituzione che sembrava nata morta, cioè il G20, e il suo corrispettivo finanziario, il Financial Stability Board, guidato da Mario Draghi dal 2006 fino al 2011, quando passa alla presidenza della Banca centrale europea.

In questo contesto produttivo in così rapida trasformazione, l’autarchia non è neppure immaginabile: nessun sistema economico, nazionale ma anche continentale, può fare da solo e mettersi al riparo dai flussi globali. Soprattutto se vuole provare a trarre qualche beneficio dalla parte più alta della catena del valore, cioè da quei settori e da quelle attività – entrambi globali – in cui si concentra la produzione di ricchezza. Le élite nazionali e i politici sono quindi costretti ad affidare le proprie speranze e carriere a un sistema economico e finanziario globale che non controllano più. Soltanto se torna la crescita i politici di ogni colore e schieramento possono sperare di essere rieletti. Soprattutto in Europa.

Ma se questo succederà, sarà grazie a canali e processi che i governi non riescono più a controllare. In entrambi i casi, sia che la situazione resti stagnante sia che migliori, sia nei Paesi dei vincitori sia in quelli dei vinti, chi governa farà sempre più fatica a nascondere agli elettori la propria inutilità

domenica 27 settembre 2015

Le domande sul sesso di Pasolini ancora attuali nell'Italia di oggi !

Già. Sull'amore e sul sesso si discute da secoli. Sull'argomento hanno discettato romanzieri e filosofi, e anche poeti e registi. Eppure il tema è sempre d'attualità. Oggi come ieri, come negli anni Sessanta, conel 1963 quando Pier Paolo Pasolini, microfono alla mano e mille domande in testa, seguito da una macchina da presa si mise a percorrere l'Italia, da Nord a Sud, sulle spiagge, davanti alle fabbriche, al bar, nei cortili, per chiedere alla gente - ragazzini, madri, vecchi, padri di famiglia, signorine, campioni del calcio e seriosi intellettuali - cosa fosse per loro l'amore e cosa il sesso.
Il risultato furono decine e decine di ore di «girato» da cui uscirono i 90 minuti del film-inchiesta, o documentario d'autore, dal titolo Comizi d'amore . Prodotto dal leggendario Alfredo Bini, vietato ai minori di 18 anni (quando molti intervistati erano minorenni), presentato per la prima volta al Festival di Locarno nel luglio 1964, uscì in Italia nel '65. Distribuito in pochissime sale e con esiti commerciali scarsissimi, il film è stato a lungo considerato un lavoro minore di Pasolini. Oggi, a cinquant'anni di distanza, appare come una delle sue opere più moderne, più intelligenti e più utili per capire come si sia trasformata nel corso dei decenni la morale del Paese. Forse molto, viene da pensare. Ma identiche sono rimaste l'ignoranza, la superficialità, la vergogna e l'ipocrisia in materia.
Sullo schermo passano dubbi, contraddizioni, misoginia. «In questa società bisogna essere Dongiovanni, se no sei un fallito», dice un militare. «Io cerco di intavolare il discorso sul sesso con mio figlio, ma lui è evasivo... forse si vergogna», dice una mamma. «I giovani sono molto più liberi oggi di quanto lo erano ai miei tempi, ma era meglio una volta, oggi i giovani sono troppo spudorati», dice una contadina. «La donna è concepita come madre di famiglia; non è concepita, che so, per andare a lavorare, la sera uscire sola, andare al cinema, al caffè», risponde un calabrese.
Cosa è cambiato rispetto a oggi? Molto poco. Riproposte oggi - provate a leggerle - le domande di Pasolini otterrebbero risposte simili, tra paure, luoghi comuni, tabù, pudori, menzogne.
Le «interviste di strada sull'amore» dicono tantissimo sull'Italia di allora (schiacciata fra tradizionalismo cattolico, prime tentazioni del boom consumistico e perbenismo borghese), dicono molto su quella di oggi figlia naturale di quella di ieri (a partire dalla spaccatura feroce dal punto di vista culturale e sociale tra Nord e Sud), e tantissimo su Pier Paolo Pasolini, curioso di sapere lo stato delle cose sulla sessualità, «la prima volta», l'omosessualità, il divorzio, la prostituzione e soprattutto sull'amore, che era la cosa che lo interessava di più. Come scrisse Enzo Siciliano: «Il film è il suo più spassionato autoritratto».
Oggi, a cinquant'anni dall'uscita del film e a quaranta dalla morte di Pasolini, Comizi d'amore torna in forma di libro. Edito da Contrasto, curato da Maria D'Agostini e Graziella Chiarcossi (cugina dello scrittore), il volume presenta la trascrizione integrale del testo cinematografico e le fotografie di scena di Mario Dondero e Angelo Novi (che assieme a quelle scattate da Philippe Séclier sulle orme del reportage pasoliniano del 1959 La lunga strada di sabbia costituiscono la mostra La vera Italia? Due inchieste di Pier Paolo Pasolini che inaugura tra due giorni allo spazio «Forma Meravigli» a Milano). Ma il libro contiene anche parecchio materiale preparatorio. Tra cui il questionario, inedito nella forma originale, steso da Pasolini come ipotesi di lavoro prima di iniziare a girare. Da qui, con modifiche e improvvisazioni sul «campo», trasse tutti gli spunti per la sua inchiesta sulla sessualità degli italiani. Ed ecco le domande che lo scrittore si era appuntato: sull'importanza del sesso nella vita quotidiana (ad esempio: «Così, istintivamente, senza pensarci troppo, che cosa prova per chi è sessualmente anormale: odio, pietà, antipatia, indifferenza, disprezzo?»), sulle perversioni sessuali («Esiste un limite preciso tra normalità e anormalità sessuale?» oppure «Lei sa cos'è un feticista? Ha mai provato qualcosa che assomiglia al feticismo?»), sull'omosessualità («Se lei si accorgesse che suo figlio è omosessuale, come si comporterebbe, che provvedimenti adotterebbe?»), sul sesso e la vita sociale (micidiale, per il 1963-65, la domanda: «Secondo lei la donna sessualmente ha la stessa libertà dell'uomo o no?»), e poi sul libertinaggio («È una aberrazione sessuale o una scelta morale?»), sulla pornografia, il divorzio e la prostituzione: «Se dipendesse da lei, come risolverebbe il problema della prostituzione?». Che, come domanda, è più che mai perfetta oggi.
«Esaminando l'Italia dal basso e dal profondo - cioè nei più bassi strati sociali e nelle profondità dell'inconscio - ne è venuta fuori un'immagine irrimediabile, fatale, e certo, parziale; il mistero più misterioso, la realtà più reale di quanto si fosse potuto calcolare. Perciò l'inchiesta rimane aperta», scrive Pasolini a lavoro compiuto, stupito che al miracolo economico non corrispondesse nel Paese un miracolo culturale. Un'inchiesta così aperta che ancora oggi, fra intolleranza di vecchia data e confusione delle nuove generazioni, è lecito chiedersi: e noi, cosa risponderemmo alle domande di Pasolini sul sesso?
Luigi Mascheroni

venerdì 4 settembre 2015

“La bellezza salverà il mondo”: Dostoevskij ci dice come.



L’abbiamo imparato dai greci – e questa intuizione ha attraversato i secoli – che ogni essere, per differente che sia, possiede tre caratteristiche trascendentali (cioè sempre presenti; mentre situazione, spazio e tempo sono irrilevanti): ogni essere è unum, verum et bonum, voglio dire che gode di una unità interna che lo mantiene nell’esistenza; che è vero, perché si mostra così come di fatto è; buono, perché svolge bene il suo compito insieme agli altri aiutandoli a esistere e a coesistere.
Sono stati i maestri francescani medievali, come Alessandro di Hales e specialmente San Bonaventura che, prolungando una tradizione venuta da Dionigi Areopagita e da Sant’Agostino, hanno aggiunto all’essere un’altra caratteristica trascendentale: pulchrum, cioè bello. Basandosi sicuramente sull’esperienza personale di San Francesco che era un poeta e un esteta di eccezionale livello, che “nel bello delle creature vedeva il Bellissimo,” hanno arricchito la nostra comprensione dell’essere con la dimensione della bellezza.
Tutti gli esseri, anche quelli che ci sembrano schifosi, se li osserviamo con affetto, nei particolari e nell’insieme, presentano, ognuno a modo suo, una bellezza singolare se non proprio nella forma, certo nel modo come in loro tutto è articolato con equilibrio e armonia sorprendenti.
Uno dei grandi estimatori della bellezza è stato Fiodor Dostoevskij. La bellezza era così centrale nella sua vita, ci racconta Anselm Grun, monaco benedettino e grande spiritualista, nel suo ultimo libro“Bellezza: una nuova spiritualità della gioia di vivere” (Vier Turne Verlag 2014) che il grande romanziere russo andava almeno una volta all’anno a vedere la bellissima Madonna Sixtina di Raffaello. Rimaneva a lungo in contemplazione davanti a quella splendida figura. Questo fatto è sorprendente, dato che i suoi romanzi penetrano nelle zone più oscure e perfino perverse dell’animo umano. Ma quello che lo spingeva, in verità, era la ricerca della bellezza, e per questo ci ha lasciato la famosa frase: “La bellezza salverà il mondo” che appare nel libro “L’idiota”.
Nel romanzo I fratelli Karamazov approfondisce il problema. Un ateo, Ipolit, domanda al principe Mynski “in che modo la bellezza salverebbe il mondo”? Il principe non dice nulla ma va da un giovane di diciott’anni che sta agonizzando. Lì rimane pieno di compassione e amore finché quello muore. Con questo voleva dire: è la bellezza che ci porta all’amore condiviso con il dolore; il mondo sarà salvo oggi e sempre fin quando ci sarà questo gesto. E come ci manca, oggi!
Per Dostoevskij la contemplazione della Madonna di Raffaello era la sua terapia personale, perché senza di questa avrebbe disperato degli uomini e di se stesso, davanti ai tanti problemi che vedeva. Nelle sue opere ha descritto persone cattive distruttive e altre che vivevano immerse negli abissi della disperazione. Ma il suo sguardo, che metteva in rima amore con dolore condiviso, riusciva a vedere la bellezza nell’anima dei più perversi personaggi. Per lui il contrario di “bello” non era “brutto” ma utilitaristico, lo spirito di usare gli altri e così rubar loro la dignità.
“Sicuramente non possiamo vivere senza pane, ma anche esistere senza bellezza” è impossibile, ripeteva. Bellezza è più che estetica; possiede una dimensione etica e religiosa. Lui vedeva in Gesù un seminatore di bellezza. “Lui è stato un esempio di bellezza e l’ha impianta nell’alma delle persone affinché attraverso la bellezza tutti diventassero fratelli tra di loro”. Lui non si riferisce all’amore verso il prossimo; al contrario: è la bellezza che suscita l’amore e ci fa vedere nell’altro un prossimo da amare.
La nostra cultura dominata dal marketing vede la bellezza come una costruzione del corpo e non della totalità della persona. Così sorgono sempre più numerosi i metodi di operazioni plastiche e consumo di botox per rendere le persone più “belle”. Bellezze costruite, senz’anima. Se osserviamo bene, in queste bellezze fabbricate emergono persone con una bellezza fredda e con un’aura di artificialità incapace di diffondere luminosità. A questo punto fa irruzione la vanità, non l’amore perché la bellezza ha a che vedere con amore e comunicazione. Dostoiewski osserva ne ‘I fratelli Karamazov’, che un viso è bello quando tu percepisci che in esso stanno litigando Dio e il diavolo, intorno al bene e al male. Quando il bene vince, erompe la bellezza espressiva, soave, naturale e irradiante. Qual è la bellezza più grande? Quella del viso freddo, di una top model o il viso pieno di rughe e pieno di irradiazione di Irma Dulce di Salvador, (Bahia) o di madre Teresa di Calcutta? La bellezza è irradiazione dell’essere. Nelle due sorelle l’irradiazione è evidente, nella top model è impallidita.
Papa Francesco ha dato speciale importanza alla trasmissione della fede cristiana attraverso la via Pulchritudinis (la via della bellezza). Non basta che il messaggio sia buono e giusto. Deve essere anche bello, perché solo così arriva al cuore delle persone e suscita l’amore che attrae, (Esortazione La gioia del Vangelo, n.°167). La chiesa non persegue il proselitismo ma l’attrazione che viene dalla bellezza e dall’amore la cui caratteristica è lo splendore.
La bellezza è un valore in se stesso. Non è utilitarista. E’ come il sole che fiorisce per fiorire, poco importa se lo guardano o no, come dice il mistico Angelus Silesius. Trovatemi uno che non si lascia affascinare da un fiore che sorride gratuitamente all’universo! Così dobbiamo vivere la bellezza in mezzo a un mondo di interessi, scambi e mercanzie. Dunque essa realizza la sua origine sanscrita Bet-El-Za che vuol dire: “il luogo dove Dio brilla,”. Brilla dappertutto e fa brillare anche noi con il bello.
LeonardoBoff ha scritto A força da ternura, ed. Mar de idéias, Rio 2011.

giovedì 3 settembre 2015

IL genio non muore mai !


Ricordi Expo Luglio 2015












































domenica 26 luglio 2015