venerdì 31 dicembre 2010

Il personaggio dell'anno? Per noi, è Nicola Gratteri

Un magistrato che ama il suo lavoro, simbolo della lotta alla 'ndrangheta
 
Ce lo invidia mezzo mondo e forse più. Perché il mondo, all’inseguimento della ‘ndrangheta, Nicola Gratteri l’ha fatto suo: dove c’è la ‘ndrangheta arriva Gratteri. Ci sono uomini che diventano dei simboli per la loro bravura, per la loro dedizione, per il rispetto che si conquistano ogni giorno, per il coraggio delle loro azioni e delle loro parole: Gratteri, calabrese di Gerace, è uno di questi uomini per tutte queste ragioni. 

Se negli ultimi anni la lotta alle mafie è diventata un fiore all’occhiello del nostro paese il merito è di magistrati come Nicola Gratteri anche se a sentir lui il merito è all’80% della polizia mentre sicuramente non lo è della politica.

Se ha un pregio Gratteri, è quello di dire sempre le cose che pensa, e mai per calcolo personale. Infatti, se riconosce come positive due azioni del governo come l’abolizione del patteggiamento in appello e l’aumento del sequestro e della confisca dei beni anche agli eredi dei mafiosi, sull’arresto dei boss si tira fuori dal coro di beatificazione del ministro Maroni: «Con gli arresti dell’ultimo anno – spiega – non c’entra nessun ministro. Alcuni arresti hano anche sei anni di indagini alle spalle». Anzi, chiede alla politica più risorse, più uomini. Soprattutto, chiede leggi più certe (quella che una volta veniva chiamata “certezza della pena”). E chiede leggi severe, concrete e uniformi non solo all’Italia, ma all’Europa, ancora troppo indietro nella legislazione antimafia. 

Nell’ultimo anno il suo libro La malapianta è stato un successo che ha permesso di scoprire cosa è la ‘ndrangheta tra (falso) mito e (reale) pericolo, dalla Calabria in America, passando per il Nord e l’Europa intera. Un libro che ricorda Cose di Cosa nostra di Giovanni Falcone, per la forma, il suono delle parole, la fermezza dei giudizi che nascono dall’esperienza. Con il magistrato siciliano non sono poche le cose in comune: dall’approccio pratico ai problemi fino alla conoscenza “culturale” di mafiosi cresciuti nello stesso territorio, con lo stesso linguaggio, spesso fatto solo di sguardi e mezze parole. E quelle cose lì, non c’è univesità che le spieghi.

Da sempre distante dalla politica, Gratteri è simbolo di quella magistratura che non ha bisogno di appartenenze per far sentire il rumore dei propri passi, l’efficacia delle proprie azioni. E i numeri contro la ‘ndrangheta di questi anni parlano per lui. 

Amante del suo orto, rifugio di pace e unico vero svago extra lavorativo, la vita di Gratteri, attualmente Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria, è blindata dal 1989, anno in cui gli venne assegnata la scorta. Nicola Gratteri è un galantuomo, come certi uomini di una volta, un magistrato vero che ama il suo lavoro, che ama la sua terra; una persona seria e perbene, orgoglio della nostra Italia che lotta contro le mafie. E per questo, per tutto questo, non può che essere lui il nostro "personaggio dell'anno".

30 dicembre 2010

giovedì 30 dicembre 2010

Non è il momento di lasciare il campo, ma di accettare la sfida.

 

Ci risiamo. Un altro invito ai giovani affinché lascino l’Italia. Prima dal rettore di un ateneo, ora da un docente universitario. La nuova esortazione è arrivata ieri, dalle colonne del Corriere della Sera dove, in un intervento, Giovanni Belardelli - docente di Storia delle Dottrine Politiche all’università di Perugia -,  commentando l’ennesimo scandalo di parentopoli, scrive che anche se a malincuore consiglierebbe di andare all’estero a un giovane laureato a pieni voti, dotato di curiosità intellettuale, animato da passione e interessi. Perché il nostro è un paese che a parole esalta la meritocrazia, ma nei fatti lascia che ovunque si pratichi la più spregiudicata meritofobia, ovvero la sistematica e capillare mortificazione del merito. 

Un pensiero condivisibile, che restituisce limpidamente l’immagine che ciascuno ha davanti agli occhi, quotidianamente. Però, ci chiediamo, se i migliori abbandonassero l’Italia, non sarebbe una sconfitta sia per chi va via che per chi rimane e non riesce a trattenerli? Il pensiero di gettare la spugna, di fare le valigie perché anche la speranza le ha fatte, forse non dovrebbe albergare nella mente di un giovane. Come può un giovane dichiararsi sconfitto, quando ancora è soltanto all’inizio della sua battaglia? Avrebbe il sapore di un abbandono del campo per ammissione di inferiorità, di impotenza. Il giovane lotta, si galvanizza per le sfide, si nutre della voglia di cambiamento. Un giovane agisce, scende nell’agone. Non il contrario.

Andare all’estero sì, ma per aprire gli orizzonti, non per sentimento e ammissione di sconfitta. Non perché ci si arrende all’idea dell’impossibilità di cambiare il proprio paese o di conquistare uno spazio per i propri talenti che non hanno trovato un mentore che li sponsorizzi. La vera sfida da vincere, dall’interno, è quella di mandare in pensione l’Italia familista.

A questo proposito, è interessante la chiave di lettura del familismo data da Belardelli. Il professore, ritiene discutibile e insufficiente la spiegazione sulle cause del familismo amorale che Banfield rintracciò nell’Italia meridionale degli anni Cinquanta. Secondo Berardelli il familismo più che essere un carattere italico è frutto di una peculiare condizione sociale, politica ed economica del paese, dove dal un lato la famiglia ha rappresentato una fondamentale risorsa per il welfare e la produzione, e dall’altro i partiti hanno influenzato il mercato del lavoro con le assunzioni clientelari.

Questa forma di malcostume italico, dunque, deriva dal familismo legato al welfare e dal clientelismo connesso con il sistema degenerato dei partiti, con i favori in cambio del voto, con la promessa e con l’assegnazione del posto di lavoro agli amici e agli amici degli amici. Un sistema bipartisan, come scrive Berardelli, dal quale non è esente nessuna parte politica, compresa quella sinistra che ha sempre vantato e ostentato la propria superiorità morale.

Per fortuna, ci sono molti giovani, pieni di talento e determinati, che non hanno nessuna intenzione di farsi sconfiggere da questa realtà, che credono nella possibile rigenerazione del paese in cui sono nati. Intendono restare, aprirsi un varco con la convinzione di poter contribuire a un cambiamento dall’interno. Certo, non escludono di andare anche fuori, soprattutto quelli che lavorano nell’ambito della ricerca, ma per arricchire il loro bagaglio di conoscenze, per affinare con l’esperienza all’estero il loro bagaglio professionale. Ma è l’Italia il paese in cui vogliono operare, il posto in cui vogliono mettere a frutto i risultati del loro lavoro.

L’auspicio è che le varie parentopoli, più o meno eclatanti e scandalose, le solite storie ordinarie di raccomandazioni non abbiano la meglio sulla determinazione di chi in questi anni si affaccia nel mondo delle professioni e con le proprie risorse può portare nuova linfa e contribuire alla costruzione di un’Italia più efficiente, meno approssimativa e più confidente nei propri mezzi e nel proprio futuro.

di Rosalinda Cappello

30 dicembre 2010

martedì 28 dicembre 2010

Cosa impedisce a una destra matura di incarnare solidarietà e sviluppo meritocratico? La sfida della politica moderna? Trovare la bussola.

Chi l’ha detto che certi valori, siano solo a sinistra? O alcune sensibilità, o determinate percezioni di una società sempre più post moderna, la cui maggiore deficienza strutturale sta tutta in un’idea politica vecchia e stantìa? Oltre che in molti interpreti. Cosa impedisce a una destra matura, a un altro polo, a un contenitore che potremmo chiamare anche Topolino, di incarnare solidarietà, giustizia sociale, sviluppo industriale meritocratico, lettura moderna di esigenze democratiche - e sociali - primarie? Un’accurata analisi apparsa sulle pagine di Repubblica si incentra su un cumulo di bagagli valoriali che ruotano attorno alla parola sinistra. E supportata da illustri pareri di filosofi, sociologi, politologi. 

Lecito, però, chiedersi: perché allora non capovolgere la visuale? Perché non alzare lo sguardo e proporre coraggiosamente che sia dunque la destra, o anche un’altra latitudine, a incamerare un patrimonio sociale che non può essere di un unico interprete? Semplicemente perché è proprio questo il tanto declamato bene comune, la futura geografia socio-culturale di ogni Paese. Come può una classe dirigente europea e moderna lasciare a un solo termine, per quanto nobile e storicamente valido, il tutoraggio di problematiche strategiche? Come la previdenza, la giustizia sociale, l’uguaglianza, la libertà intesa come plus, i sogni e le aspettative, il desiderio di partecipazione di un popolo, la voglia giovanile di rimettere in discussione un tessuto ormai necrofilo.

Marc Lazar ha, non da oggi, correttamente diagnosticato che la criticità della sinistra è stata nel voler ostinarsi a guardare il mondo, assieme alle molteplici evoluzioni che ha registrato nell’ultimo ventennio, attraverso lenti del passato. Senza la capacità di gestire opportunità straordinarie come la globalizzazione, dimostrando una volta di più di aver smarrito la ricchezza vera della socialdemocrazia, ovvero l’intuizione di adattarsi alle evoluzioni della società. Detto questo, è sì utile tornare a quell’assunto di Bobbio, secondo cui «il valore dell’uguaglianza traccia la linea di separazione della sinistra dalla destra», ma cassando gli attori presenti sulla scena. Perché oggi non vi è destra, o centro, o sinistra, o sotto o sopra che possa permettersi di ignorare le pulsioni sociali di cittadini in difficoltà, di cassintegrati sfiduciati, di laureati che si apprestano spesso a intraprendere la carriera di “dottori” disoccupati, di ricercatori che non hanno gli strumenti tecnici per scoprire e innovare, di professionisti vessati da aliquote impegnative, di piccole e medie imprese costrette a licenziare, di grandi imprese senza commesse, di insegnanti demotivati. Insomma, di mille diagonali sociali in cerca di una bussola.

E che una politica, di qualsiasi colore la si voglia etichettare, ha l’obbligo morale di valutare e sostenere. Nel 2008 la terza guerra mondiale ha preso il nome di crisi economica. E ostinarsi a non rilevarne le conseguenze presenti, come schegge, in tutti i campi, equivale a una dichiarazione di resa. È come voler ridurre la sfida della rivoluzione scolastica e universitaria a una sistemazione di competenze o alla spedizione di circolari ministeriali. Che, da sole, non risolvono i problemi, anzi, li raddoppiano. Oggi alcune forme giuridiche di uguaglianza, come osservato da Carlo Galli, risultano minacciate da insicurezza e paura, dove la democrazia è fragile, perché sostituita dal populismo.

Ha ragione il sociologo inglese Anthony Giddens, teorico della terza via concretizzata da Tony Blair, quando dice che nell’agone politico attuale una divisione netta fra sinistra e destra è meno evidente che in passato. «Per di più alcuni dei maggiori problemi che ci troviamo ad affrontare, come il cambiamento climatico, al centro di molti dibattiti neocontemporanei, trascendono la divisione classica tra sinistra e destra». Ecco la chiave di volta per interpretare il futuro, ecco una logica e ragionevole analisi di ciò che il domani, anzi l’oggi, sta drammaticamente chiedendo. E a cui in pochi si sforzano di offrire una risposta che sia lontana anni luce da populismi e demagogia.

La sfida di una destra moderna - ma, a questo punto, di chiunque agirà responsabilmente e con coscienza - sta nella capacità di criticare il presente, urlandone esplicitamente le contraddizioni, le sperequazioni, le incongruenze che, palesi, affiorano a tutte le latitudini. E non a causa di qualcun altro, o della sfortuna, o della congiuntura sfavorevole, o della concomitanza con altri eventi, o della congiura invocata da qualche foglietto di partito. Ma di chi ancora oggi, dopo fiumi di inchiostro speso da sociologi, economisti, storici, e capi di Stato, ignora la portata epocale di una rivoluzione del welfare da declinare in senso politico. E con la P maiuscola.

Francesco De Palo

 28 dicembre 2010

venerdì 24 dicembre 2010

Riflettiamo qualche minuto prima di stringerci in un agurio sincero per un sereno Natale e un prolifero anno nuovo.

Un altro anno si accinge a volgere al termine e come si è soliti fare si tirano le somme per fare un po’ il bilancio tra quanto di buono si è fatto,  e tra quanto non si è fatto o si è fatto male. Alle porta del Santo Natale ci si interroga se ci si sente a posto con la propria coscienza, avendo dato tutto quello che si poteva e non essendosi risparmiati su nulla. E pur tuttavia è difficile essere felici assistendo alle diverse difficoltà , in alcuni casi anche drammatiche, di chi ha perso il lavoro o chi lo sta per perdere; e triste pensare alla precarietà di settori come la sanità,  dove le nostre famiglie oltre al peso portato per le malattie devono sottoporsi anche a quello  causato dai disservizi e delle cattive prassi ormai radicate nel nostro sistema; è difficile far passare l’idea di essere motivati  quando la disoccupazione giovanile è ai massimi storici e la qualità dei nostri servizi ai minimi; c’è poco da sorridere se si volge lo sguardo verso tutte quelle persone anziane che oltre a soffrire la solitudine vivono in una condizione di povertà: come poco da sorridere si trova, pensando a tutte quelle madri sole, che si trovano sulle loro spalle la responsabilità e il peso di educare e mantenere i propri figli.  Possiamo classificare i tempi moderni come proliferi di maggiore ricchezza, ma dobbiamo rilevare con tristezza che ciò si riferisce solo all’aspetto materialistico della questione, è evidente che l’aspetto umano e valoriale è stato calpestato e avvilito dall’avidità del danaro e dalla spregiudicatezza per ottenerlo; tutte cose che non potranno mai essere conciliate con l’idea di giusto e con il valore di giustizia, tutte cose che non potranno permettere l’utilizzo di quelle che mi piace definire le buone prassi, tutte cose su cui ci dobbiamo impegnare fortemente e fermamente per invertirne la tendenza. Ed è con queste poche righe che voglio chiudere quest’anno, e magari con un auspicio ad essere unanime e solidali, ricercando nella vita reale il pretesto per alzare e tenere dritto il capo in modo che possiamo volgere il nostro sguardo lontano , molto lontano,  perché solo guardando lontano si ha la possibilità di ritrovare la speranza per continuare a credere che i sogni esistono e che se si ci crede fino in fondo si possono pure realizzare. Auguro tutto il bene del mondo a voi e alla vostre famiglie con le quali spero possiate passare un sereno Natale, e trascorrere un anno nuovo gravido di soddisfazioni e di grandi obbiettivi da raggiungere.
Con affetto Gaetano Amenta


Vi dedico questa incredibile storia che trasmette veramente tante emozioni.
http://www.youtube.com/watch?v=RxPZh4AnWyk&feature=list_related&playnext=1&list=ML4oVf-d_DwKDKph8YmFzaqlH4sciObOA9

sabato 18 dicembre 2010

Questa è una società che non fa progetti, non guarda al futuro; è una società che non sogna più.

«Mia figlia è una precaria
Ha 30 anni e nessun sogno»

Una mamma: l'infelicità? È non poter pensare al domani

La lettera - Da anni un lavoro «a progetto», sempre nella stessa azienda
«Mia figlia è una precaria
Ha 30 anni e nessun sogno»
Una mamma: l'infelicità? È non poter pensare al domani
Una mamma milanese riflette sul futuro della figlia nel giorno del trentesimo compleanno. Ripensa al giorno della nascita e ai presagi di un avvenire felice. E si interroga su un presente che sconforta. È una lettera sul futuro senza certezze dei giovani. La lettera di una «mamma arrabbiata».
Caro direttore,
ieri mia figlia ha compiuto trent'anni. Da diversi anni lavora nella stessa azienda con contratti «a progetto». Subito dopo la sua nascita, in una gelida notte di luna piena, da un finestrone del reparto maternità dell'allora già vetusto ospedale Principessa Jolanda di Milano (oggi non c'è più) ho potuto ammirare la cupola di Santa Maria delle Grazie del Bramante incorniciata da un cielo terso, luminoso e azzurro che sembrava finto, nel quale, a far da contrappunto alla luna, brillava una stella solitaria. Uno scenario di rara bellezza che mi era sembrato un ottimo auspicio per la mia bambina.
Oggi sono una madre molto arrabbiata. Non è mia figlia che mi ha deluso. E non è di lei che voglio parlare, ma dell'indifferenza di chi assiste senza scomporsi al dramma della sua generazione. Alla sua età io avevo già fatto molti sacrifici, ma avevo prospettive concrete di crescita professionale e di fare progetti per la vita. Per mia figlia e la grande maggioranza dei suoi coetanei i sacrifici non bastano: con questi giovani la realtà è stata, ed è, avara di occasioni e ladra di sogni. Possono anche dimostrare di valere, ma non hanno la libertà di inventarsi il futuro.

Abbiamo perso il valore del lavoro, la sua dignità, il suo ruolo nella crescita individuale e nella società. Non siamo stati capaci di difendere il futuro dei nostri figli. Abbiamo creduto che bastasse aver conquistato certi diritti per avere la certezza che sarebbero durati all'infinito. Complice un diffuso benessere, amplificato in principio dal «riflusso» degli anni Ottanta, abbiamo un po' dormito sugli allori. Noi, che abbiamo potuto realizzarci grazie al lavoro, li abbiamo cresciuti nella certezza che il loro futuro sarebbe stato migliore.
Valentina Strada

Responsabilità ben maggiori hanno i governi degli ultimi vent'anni senza distinzione, la classe dirigente, le parti sociali, spesso l'inadeguatezza strutturale e formativa della scuola e dell'università. Mi sembra che nessuno, tranne noi e i nostri figli, voglia la fine di questo scandalo. Sono troppi gli altri interessi in gioco.
Con che cuore e testa possiamo accettare che i nostri giovani (e smettiamola con i «bamboccioni»), non abbiano futuro? Nonostante le lauree e i master all'estero, la loro vita sembra segnata irrimediabilmente dalla precarietà. Altro che meritocrazia. E non vale il discorso che sono pigri e viziati. I fannulloni non sono una scoperta del ministro Brunetta, sono sempre esistiti. Per fortuna sono eccezioni.
Le attuali regole del mercato del lavoro, nel tentativo di favorire l'occupazione e combattere il lavoro nero, in molti casi hanno finito paradossalmente per legalizzare la precarietà. Cos'altro si può dire quando, pur non ricorrendo le condizioni previste dalla legge, e in totale assenza di controlli, certe aziende impiegano in massa contratti «a progetto» rinnovabili all'infinito? Perché l'Inps, che da questa tipologia contrattuale riceve contributi irrisori, non controlla che siano veritieri e non degli abusi? Meno male che c'è il welfare delle famiglie. Però anche le famiglie si stanno impoverendo e non mi riferisco solo alle risorse economiche. L'infelicità dei tuoi figli, la loro impossibilità di pensare a domani con un minimo di stabilità, la loro sfiducia, frustrazione, quando non disperazione, fa soffrire anche te, ti condiziona, ti deprime, vivi male. Si vive male tutti.
Basta con l'alibi della crisi globale che paralizza la crescita del Paese. In tempi di crisi c0è anche chi si arricchisce. Non si dica più che da noi però c'è più occupazione che in Spagna. Si dica invece che ce n'è meno che in Germania e quella che c'è comprende qualche milione di lavoratori «atipici».
Credo che abbia ragione chi dice che è finito il tempo del posto fisso perché il mercato del lavoro esige sempre più flessibilità, ma andare in questa direzione senza criterio né tutele non è un passo avanti. Il processo di trasformazione sociale in atto non dovrebbe essere solo un prezzo da pagare. I giovani hanno capacità di adattamento, ma non vogliono e non devono essere ingiustamente penalizzati. Un lavoro dignitoso e flessibile ma con garanzie graduali, fino a raggiungere una certa stabilità, è un elemento importante per ridare fiducia e contribuire al rilancio dell'economia. Non lo dico io, che sono solo una madre arrabbiata, l'hanno detto e lo dicono ripetutamente economisti e giuslavoristi importanti. Ultimamente anche Mario Draghi, Governatore della Banca d'Italia. Sarebbe il modo migliore per dare contenuto a due principi costituzionali: «L'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro» (art. 1) e «La repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto» (art. 4). Effettivo.

giovedì 16 dicembre 2010

Quei giovani in piazza perché qualcosa cambi davvero.

Urla, spintoni, tafferugli, un sedicenne che brandisce una pala e un manganello, tavoli che volano, camionette incendiate, il rombo continuo di elicotteri che sorvegliano la zona. Il centro assediato. Scene di violenza che fanno venire i brividi, che evocano immagini di un passato che non vorremmo vivere. Aria di rivoluzione nel centro di Roma, blindatissimo nel giorno della sfiducia mancata al governo Berlusconi.

Giovani, tanti - e finti giovani - portati in strada dall’esasperazione, dalla voglia di manifestare che ci sono anche loro, che vogliono essere ascoltati, che così non ci stanno, che qualcosa deve cambiare, nel nome loro, nel nome del futuro del paese. Come dar loro torto. L’inquietudine dell’età che si somma al disagio per un domani incerto e per un presente che vogliono migliore. A portarli in piazza il malessere per un sentimento di impotenza – una parola che nella bocca di un giovane suona come una sconfitta -  rispetto a ciò che vorrebbero diverso ma che sentono di non riuscire a cambiare perché non ne hanno la possibilità, perché sono lontani dalle sedi in cui si decide, anche per loro.

Ma. Ma occorre che siano vigili, loro stessi, affinché questo disagio – e il diritto di manifestarlo - non degeneri in qualcos’altro, in una violenza cieca, in una sterile, o peggio, in una controproducente rabbia nichilista e distruttiva. Attenzione a non lasciare spazio ai giovani balordi, a non farsi cavalcare dai soliti “inutili” idioti, un po’ troppo cresciuti per essere chiamati giovani, sempre pronti a confondersi tra i giovani veri, ad aizzarli, a portare il loro diritto di manifestare dalla parte del torto. Attenzione a non fornire a una certa cattiva politica l’alibi per non fermarsi ad ascoltare quel disagio, per non accogliere le ragioni di chi in questi ultimi tempi scende sempre più spesso in piazza per gridare verso i palazzi in cui si decide il futuro del paese. E il loro. Per manifestare in difesa di un merito che non trova spazio in una società gerontocratica e familistica, per una cultura mortificata, per uno sviluppo che passa attraverso la ricerca e l’innovazione, sempre più sacrificate sull’altare di una crisi che sembra sempre di più un alibi per fare in modo che tutto cambi, purché nulla cambi davvero.
 Rosalinda Cappello

16 dicembre 2010

domenica 5 dicembre 2010

Bisogna cavarsela da soli. Darsi una disciplina esistenziale, fissare dei traguardi e poi mettersi in marcia senza vittimismi, perché i «se» sono la patente dei falliti, mentre nella vita si diventa grandi «nonostante».

Sulla relazione annuale del Censis aleggia lo spirito di Jung. Giusto così: questa crisi non è materia per economisti, ma per psicanalisti L’Italia, sostiene il sempre immaginifico De Rita, affonda perché non sa più desiderare. In realtà molti di noi hanno ancora dei sogni. Quello che manca è l’ossigeno per raccontarli, persino a se stessi. A forza di scattare a vuoto, la molla si è inceppata. Il futuro non è un’opportunità e nemmeno una minaccia.

Semplicemente non esiste. Il futuro è la rata mensile del mutuo o il bilancio trimestrale dell’imprenditore: nessuno ha la forza di guardare più in là e si vive in un presente perenne e sfocato, attanagliati dallo sgomento di non farcela. Sulle macerie della guerra, l’inconscio dei nonni riusciva a progettare cattedrali di benessere: quegli uomini avevano visto abbastanza da vicino la morte per immaginare la vita. Sulle macerie morali del turbo-consumismo, la cui crescita dopata ha ucciso i desideri (di fronte a tremila corsi di laurea o tremila canali televisivi l’impulso è di spegnere tutto), l’inconscio dei nipoti sembra paralizzato da un eccesso apparente di libertà e dall’assenza di punti di riferimento. Anche la delega al leader salvifico, di qualsiasi colore, ha fatto il suo tempo.

Bisogna cavarsela da soli e siamo diventati troppo egoisti per ricordarci come si fa. Orfani di padre, cioè dell’autorità che trae origine dall’autorevolezza e consente ai figli di avventurarsi in territori inesplorati, sapendo di poter contare all’occorrenza su una robusta ringhiera. E con una classe dirigente specializzata nel dare cattivo esempio, priva del titolo morale per imporre regole che è la prima a non rispettare. Come si evince da quanto detto fin qui, la fotografia del Censis è decisamente beneaugurante. Almeno per chi è convinto che non ci si possa aspettare il riscatto sociale da teorie economiche e ideologie politiche, ma solo dall’urgenza di tante rivoluzioni individuali che riescano a connettersi fra loro, creando una vera comunità. Darsi una disciplina esistenziale, fissare dei traguardi e poi mettersi in marcia senza vittimismi, perché i «se» sono la patente dei falliti, mentre nella vita si diventa grandi «nonostante». E che Jung ce la mandi buona.
GRAMELLINI

venerdì 3 dicembre 2010

No ad un clima di terrore.Non permettiamo a nessuno di limitare la nostra libertà.

Non so se stiate seguendo le vicende politiche che riguardano i diversi comuni e la provincia di Siracusa. Dico questo perché è curioso come alcuni leader di partito di nuova costituzione(i partiti) e di lungo corso(i Leader) sono pronti a buttare a mare gli interessi del territorio e dei cittadini in tutte le amministrazioni della provincia compreso l’ente di via Malta, senza nominare mai una tematica tra le migliaia che stanno attanagliando territorio, cittadini, lavoratori e studenti,  preoccupandosi solo di giocare a risico con l’unico scopo che è il potere fine a se stesso. Nelle tematiche di questi  soggetti non si parla più da anni di strade, di pubblica amministrazione costosissima e lenta, di edifici scolastici inadeguati veri e propri tuguri dove ancora abbiamo il coraggio di mandarci i nostri figli, della sanità dove al centro non è mai stato il malato , ma le direzioni generali e i primariati, dove i rifiuti non possono diventare una risorsa per i cittadini ma sono il business per il malaffare , dove il lavoro non è legato alla buona gestione di tutti questi settori , ma è un illusione sofferta dietro le loro segreterie, di centinaia di giovani e di padri di famiglia alla disperazione. E la cosa straordinaria è quella che da decenni si usa la stessa tecnica , “quella della paura” , si aleggia nell’aria una condizione di incertezza debitamente voluta da atti e atteggiamenti di violenza pura che nulla hanno a che fare con la politica, che nulla hanno a che fare con le buone prassi, che nulla hanno a che fare con le persone per bene, con i valori veri. L’arroganza sostituisce il dialogo e la violenza le decisioni, ma ciò che è importante ribadire  adesso è che le parole non perderanno mai il loro potere , perché esse sono l’unico mezzo per giungere al significato e per chi avrà voglia di ascoltare per giungere alla affermazione della verità, e la verità è che c’è qualcosa di terribilmente  marcio nelle nostre città , nel nostro paese. I valori come la tolleranza, il rispetto, la collaborazione per fini nobili di interesse comune sono sostituiti dalla crudeltà, dalle ingiustizie dalle intolleranze e dalle oppressioni. Mi viene la stizza di dire che sicuramente ci sono alcuni più responsabili di altri che dovranno rispondere di tutto ciò , ma a dire la verità ancora una volta se cercate il colpevole non c’è che guardarsi allo specchi. Penso di sapere perché ciò accada, so che avete paura, e chi potrebbe non averla il solo pensiero di non essere accanto a un potente provoca sgomento, incertezza , terrore,  -soli,  in mezzo a una quantità enorme di problemi, una macchinazione diabolica atta a corrompere la vostra ragione e a privarvi del vostro buon senso , ed è con queste condizioni che la paura si impadronisce di ognuno, la paura si impadronisce di voi e il caos mentale vi spinge a sottomettervi la dove si identifica il potere , pare che questa volta possa finire nuovamente così. Ma io sono convinto che è arrivato il tempo per riaccendere la speranza, la speranza di ricordare a tutti noi che valori come l’equità, la giustizia e la libertà non sono e non possono restare solo parole, perché più che parole sono prospettiva, senza dei quali nulla può essere se non quello che è. Ma se riuscite a vedere ciò che vedo io, se i tanti pensano quello che penso io, se siete alla ricerca come lo sono io di altro, per rimanere con la coscienza apposto, allora bisogna opporsi a questo stato di cose e dare inizio ad un’era nuova della politica e della società.

domenica 17 ottobre 2010

Un processo culturale che superi i blocchi di pensiero schematizzati con i riferimenti culturali destra – sinistra.

Da più parte ormai si sostiene che le ideologie tradizionali sono state superate dal tempo e dalla storia. Ciò ci proietta nel rivedere gli impianti ideali che riflettono i tempi moderni , perché innanzitutto c’è da comprendere che la velocità con la quale cambiano le cose è enormemente aumentata negli ultimi cinquanta anni, soppiantando la lentezza ciclica dei periodi precedenti. Quindi velocità nella mutevolezza delle cose e delle abitudini ma anche velocità nella miriade di contrattempi causati da tutto ciò. Noi oggi dovremmo adeguare intanto i tempi di reazione al cambiamento e riuscire a trovare metodi e soluzioni idonei alle diverse problematiche. Questo piccolo sunto anche se molto generale ci fa comprendere come il superamento delle vecchie barriere ideologiche in un certo qual modo ci disorienta anche e soprattutto negli schemi tradizionali di pensiero schematizzati con i riferimenti culturali destra – sinistra. La società moderna ha posto in essere un impianto nuovo che si pone come sparti acqua con il passato. Si sono ridotti i tempi di percorrenza siano essi fisici che telematici. Una moltitudine di azioni possono oggi essere svolti in tempo reale, pensiamo un po’ all’informazione o alla comunicazione via internet , altre in tempi brevi come lo spostamento di merci e persone nelle diverse parti del mondo. Semplificando un po’ possiamo dire che nuovi metodi portano nuovi problemi, ed è proprio questo che sta mettendo in serie difficoltà le nostre comunità e non solo, perché intere nazioni si scoprono con problemi insormontabili. La mia idea è quella che si continua a non voler capire che ai nuovi problemi bisogna contrapporre nuove soluzioni. Se continuiamo a impiegare le soluzioni che erano buone per le vecchie ideologie, continuiamo nell’errore che ci porta ad ammettere che l’impianto ideologico del novecento è superato , ma non i metodi dello stesso periodo storico che si utilizzavano per la soluzione di problemi causati da quel sistema. Oggi quindi la contrapposizione dei diversi schieramenti non può essere banalizzata tra chi dice cose di destra e chi invece dice cose di sinistra, lo sforzo va profuso nell’individuazione di moderne soluzioni a problemi creati dalla modernità e soprattutto nello sforzo comune di creare una piattaforma valoriale riconosciuta da tutti come fondamento di una democrazia liberale dove la legalità, la giustizia,la sicurezza e la libertà non possono essere dei valori da interpretare, ma delle certezze da osservare.

sabato 25 settembre 2010

La mia Idea per cambiare le cose

Ho sempre sostenuto che per cambiare le cose ci vogliono metodi e ideee nuovi, senza dei quali sarà difficile aspettarsi novità. Con il solo cambio di persone siano essi maschi o femmine, giovani o vecchi, se non accompagnati da un nuvo ven...to tutto rimarrà immutato. Pur tuttavia nella mia breve esperienza di vita sociale e politica mi sono sempre chiesto quale fosse stato il migliore metodo per cambiare le cose. La storia , la letteratura e i fatti con le loro testimonianze ci spingono verso l'isola del pessimismo, e viene pure difficile trovare argomenti per ribaltare la triste realtà. Ma la dove non arriva la raggione ci arriva l'istinto,l'amore e la passione, tutte prerogative che non hanno prezzo, che non si possono acquistare o vendere; prerogative che devono ridare un senso alle parole, alle quali devono segure i fatti. E per fare ciò si ha la necessità di costruire coscienze,di aprire dibattiti ,come questo, con il fine di creare spazzi magari strappati alla politica trita e ritrita, per riempirli di idee e contenuti nuovi, perchè solo così facendo tutto avrà senso, e tutto ridarà vigore ad una vera nuova azione, senza della quale tutto sarà noia.