giovedì 16 dicembre 2010

Quei giovani in piazza perché qualcosa cambi davvero.

Urla, spintoni, tafferugli, un sedicenne che brandisce una pala e un manganello, tavoli che volano, camionette incendiate, il rombo continuo di elicotteri che sorvegliano la zona. Il centro assediato. Scene di violenza che fanno venire i brividi, che evocano immagini di un passato che non vorremmo vivere. Aria di rivoluzione nel centro di Roma, blindatissimo nel giorno della sfiducia mancata al governo Berlusconi.

Giovani, tanti - e finti giovani - portati in strada dall’esasperazione, dalla voglia di manifestare che ci sono anche loro, che vogliono essere ascoltati, che così non ci stanno, che qualcosa deve cambiare, nel nome loro, nel nome del futuro del paese. Come dar loro torto. L’inquietudine dell’età che si somma al disagio per un domani incerto e per un presente che vogliono migliore. A portarli in piazza il malessere per un sentimento di impotenza – una parola che nella bocca di un giovane suona come una sconfitta -  rispetto a ciò che vorrebbero diverso ma che sentono di non riuscire a cambiare perché non ne hanno la possibilità, perché sono lontani dalle sedi in cui si decide, anche per loro.

Ma. Ma occorre che siano vigili, loro stessi, affinché questo disagio – e il diritto di manifestarlo - non degeneri in qualcos’altro, in una violenza cieca, in una sterile, o peggio, in una controproducente rabbia nichilista e distruttiva. Attenzione a non lasciare spazio ai giovani balordi, a non farsi cavalcare dai soliti “inutili” idioti, un po’ troppo cresciuti per essere chiamati giovani, sempre pronti a confondersi tra i giovani veri, ad aizzarli, a portare il loro diritto di manifestare dalla parte del torto. Attenzione a non fornire a una certa cattiva politica l’alibi per non fermarsi ad ascoltare quel disagio, per non accogliere le ragioni di chi in questi ultimi tempi scende sempre più spesso in piazza per gridare verso i palazzi in cui si decide il futuro del paese. E il loro. Per manifestare in difesa di un merito che non trova spazio in una società gerontocratica e familistica, per una cultura mortificata, per uno sviluppo che passa attraverso la ricerca e l’innovazione, sempre più sacrificate sull’altare di una crisi che sembra sempre di più un alibi per fare in modo che tutto cambi, purché nulla cambi davvero.
 Rosalinda Cappello

16 dicembre 2010

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