giovedì 20 febbraio 2014

Tempesta perfetta: Ars, acqua alla gola. Colpevoli e incompetenti !


SHARE ON EMAIEMAISHARE ON PRINT

Tempesta perfetta: Ars, acqua alla gola. Colpevoli e incompetenti?
Autonomisti, indipendentisti e sicilianisti lamentano la perdita di sovranità della Regione siciliana, il tradimento dei padri fondatori, l’abbandono del patto fondativo, l’ascarismo dei politici siciliani. Puntano il dito contro la burocrazia romana accentratrice, i partiti nazionali, il nord egoista e denunciano una sorta di conventio ad excludendum, la tacita intesa tra poteri forti, parti sociali, economiche e politiche ai danni dell’Isola.
Uomini delle istituzioni, professionisti, imprenditori, manager, stando dall’altra parte della barricata, sono invece arcistufi delle Regioni, farebbero volentieri a meno della specialità siciliana, attribuendo all’Ente Regione la responsabilità di sprechi, privilegi, inefficienza. I guai giudiziari capitati ai presidenti della Regione  – le condanne a Cuffaro e Lombardo – certificherebbero questa scelta radicale.
Crescita e sviluppo sarebbero stati impediti da una casta di arraffatori che ha trovato il terreno di cultura nelle strutture regionali e nei Palazzi del potere locale. Salverebbero il Comune, del quale è impossibile fare a meno, ma vorrebbero tagliare la testa a tutto il resto: Regioni, Province, miriadi di aziende partecipate e dispendiose – comunali, provinciali, regionali ecc – per ridurre i costi della politica, nella convinzione che meno sono  i politici che hanno le mani in pasta, meglio è. La Regione, per restare in Sicilia dunque, andrebbe smantellata pezzo dopo pezzo, per colpe sue, e per colpe non sue. L’Assemblea regionale non funziona, esecutivo e legislativo fanno pena. Perché dovremmo tenercela?
E al suo posto che cosa ci mettiamo? Niente, meglio niente.
I primi – autonomisti e indipendentisti  – vorrebbero l’attuazione piena dello statuto speciale e spiegano i guai con la rottamazione del patto autonomista. I secondi cancellerebbero anche le orme delle assemblea democratiche, trascurando il fatto che le rappresentanze politiche vengono scelte proprio fra le professioni che più soffrono, a ben diritto, delle incompetenze e degli sprechi pubblici.
Non c’è da meravigliarsi se convivano nella stessa comunità opposte visioni della realtà, le diagnosi siano così diverse, e le ricette opposte; dovremmo sorprenderci non poco piuttosto nel constatare che la sfiducia nelle rappresentanze parlamentari e politiche coinvolga le istituzioni democratiche.
Quando un’assemblea è paralizzata da veti incrociati, politici irresponsabili, litigiosi e incompetenti, ciò che andrebbe fatto, appena l’occasione arriva, è un cambio delle rappresentanze attraverso un voto giudizioso alle urne. Invece ci si lamenta per anni di come vanno le cose e poi si va a votare malamente, non si va a votare affatto o si vota allo steso modo di prima, mentre si alleva il disamore per le istituzioni e la democrazia, quasi che si potesse risolvere tutto con la bacchetta magica, personaggi illuminati, cavalieri senza macchia e senza paura.
Andrea Camilleri, pochi giorni or sono, ha affrontato il tema delle responsabilità degli elettori. Che è incommensurabilmente minore rispetto a quella degli eletti, ma esiste e come. Le reazioni non sono state tutte positive. Anzi.
C’è bisogno di ricordare Winston Churchill, il grande statista inglese, conservatore e aristocratico, che avvertiva i suoi – e anche se stesso – dell’impossibilità di sostituire la democrazia, per quanto stupida fosse? Gli elettori, non solo gli eletti, cui la democrazia affida le scelte, ricordava, sarebbero da sfiduciare, ma dobbiamo tenerceli perché sarebbe peggio se non ci fossero.
I tempi sono tristi a causa della crisi economica. In Sicilia e altrove. Le rappresentanze politiche non brillano per competenza, etica della responsabilità, senso delle istituzioni; in più i politici non sentono l’appartenenza al partito o movimento in cui militano, facendo prevalere individualità e interessi personali.
Il Parlamento siciliano non dà grande prova di sé, come dimostrano episodi recenti – la finanziaria cancellata dal Commissario dello Stato e le aree metropolitane, bocciate nel segreto dell’urna – ed è comprensibile che qualcuno pensi sia meglio mandare tutto a carte quarantotto, esasperato per i problemi, irrisolvibili, che deve affrontare.
E’ incomprensibile, tuttavia, che questo atteggiamento venga tenuto da coloro che hanno responsabilità istituzionale. Fra quelli che gettano in aria le carte c’è il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, il quale ripropone – lo ha già fatto qualche mese fa – il commissariamento della Regione siciliana. Il sindaco sa bene che una soluzione siffatta può essere adottata in presenza di condizioni estreme che oggi non esistono, ma vuole mettersi in sintonia con il sentire popolare, al pari di chi sta fuori dalla mischia.
Come giudicherebbe chi chiedesse il commissariamento del Comune perché la munnizza sommerge i cittadini, le case, le scuole e gli edifici pubblici crollano, le strade si allagano e l’abuso e il disordine prevalgono in  molti settori nel capoluogo della Sicilia?
Sarebbe ingiusto addebitargli la responsabilità piena di ciò che accade, nonostante i molti anni trascorsi a Palazzo delle Aquile, perché le ragioni dell’inefficienza e del disordine sono vaste e antiche. Piuttosto che perorare la causa del commissariamento, dovrebbe sentirsi parte della classe dirigente e farsi coinvolgere dall’aspro confronto in corso in Assemblea. Il sindaco della città capoluogo conta pure qualcosa. Invece, per quanto ne sappiamo, non ha nemmeno partecipato all’audizione in Commissione bilancio, dedicata alle aree metropolitane, snobbando il Parlamento.
“Dopo aver approvato una legge finanziaria che non ha passato il vaglio del Commissario dello Stato ed ha suscitato da un lato ilarità e dall’altro preoccupazione in tutta Italia”, protesta tuttavia Leoluca Orlando, “l’Ars cancella, fatto unico in Italia, le città metropolitane, non solo dimostrando di essere indietro nel tempo rispetto allo sviluppo istituzionale del paese, ma soprattutto tagliando fuori quasi tre milioni di siciliani dalle possibilità che questa nuova forma istituzionale offre in termini di rapporti privilegiati con gli investitori e per l’accesso ai fondi comunitari”.
Tutto giusto, da sottoscrivere. Le ragioni delle rimostranze sono condivisibili, ma non valgono nulla se diventano solo un’occasione per mascariare il nemico.  E’ un peccato che Leoluca Orlando si scrolli di dosso responsabilità come se fosse la polvere del cappotto lasciato a lungo in armadio.
Se è comprensibile lo sfogo di chi non sa come sbarcare il lunario e se la prende con chi gli capita, non lo è quello del sindaco di Palermo.
Quando ha saputo della richiesta di commissariamento da parte di Orlando, il presidente della Regione, Rosario Crocetta, ne ha approfittato per ricordargli di comportarsi da uomo delle istituzioni, dismettendo il qualunquismo. Condivisibile anche la sua diagnosi a patto che faccia altrettanto. Come ammonivano saggiamente i romani: “Medice, cura te ipsum”. Il qualunquismo è endemico, non risparmia nemmeno i buoni di spirito e si espande anche a causa di portatori sani.
Siciliainformazione.com

Condannato per concorso esterno con la mafia l'ex governatore della regione siciliana Raffaele Lombardo !


FINISCE MALE LA STORIA POLITICA DELL’EX GOVERNATORE 
DELL’ISOLA. L’ACCUSA DI CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE 
MAFIOSA HA RETTO. E’ CADUTO INVECE IL VOTO DI SCAMBIO
Il Tribunale di Catania ha condannato l’ex presidente della Regione, 
siciliana, Raffaele Lombardo, a sei anni e otto mesi (l’accusa aveva 
chiesto dieci anni) per concorso esterno in associazione mafiosa.
 A cui si aggiungono un anno di interdizione dai pubblici uffici e un 
anno di libertà vigilata. L’ex governatore è stato invece assolto dal
reato di voto di scambio.
Il Gup di Catania, Marina Rizzaha ritenuto il reato elettorale assorbito 
in quello di concorso esterno in associazione mafiosa. Il processo non ha 
provato i rapporti di Lombardo con il clan mafioso dei Cappello. Ma ha 
ritenuto veri i suoi contatti con Cosa nostra. 
Rinvio a giudizio, per gli stessi reati, per il fratello dell’ex presidente,
 Angelo Lombardo, ex parlamentare nazionale dell’Mpa. Per lui il 
processo col rito ordinario si aprira il prossimo 4 giugno davanti al 
Tribunale di Catania.
L’inchiesta su Lombardo risale al 2010. E’ un’indagine – denominata 
Iblis – dei Carabinieri del Ros di Catania. tema: i presunti rapporti tra 
Cosa nostra, politica e imprenditori.
L’inchiesta si era conclusa in un processo per reato elettorale davanti
 al giudice monocratico per Raffaele Lombardo e per suo fratello Angelo.
La Procura aveva presentato una richiesta di archiviazione del reato 
di concorso esterno in associazione mafiosa per i fratelli Lombardo. 
Ma il Gip, Luigi Barone, in camera di consiglio, ha rigettato la 
richiesta della Procura e ha disposto l’imputazione coatta. 
Da qui le dimisisoni di Lombardo da presidente della Regione.
I pubblici ministeri hanno appioppato all’ex presidente della Regione 
l’aggravante mafiosa per il reato elettorale. Cosa, questa, che ha fatto 
confluire il processo davanti al giudice monocratico.
Lombardo si è sempre proclamato innocente come ha ribadito subito 
dopo la condanna.
Il Gud Marina Rizza ha anche disposto l’invio agli atti in Procura per
 valutare la posizione di uno degli uomini più potenti della Sicilia, 
Mario Ciancio Sanfilippoeditore del quotidiano La Sicilia.


LINKSICILIA


mercoledì 19 febbraio 2014

Riforma Province ? La maggioranza Crocetta in frantumi !

Il Movimento cinque stelle vota a favore dell'emendamento che cancella dal ddl le Città metropolitane. Ed esplode il "tutti contro tutti". Sospetti tra i deputati della coalizione di governo. "Oggi un fatto gravissimo".


ars, crocetta, grillini, maggioranza, Province, voto, PoliticaIl governatore, Rosario Crocetta

PALERMO- Alla lettura della votazione, ecco l'esultanza. E persino qualche abbraccio. Abbracci "ibridi". Contro natura. Qualche deputato grillino infatti ha stretto qualche collega del centrodestra. La trappola aveva appena funzionato.

La scena è raccontata da un deputato di maggioranza, per carità. E la suggestione può avere avuto la meglio sulla effettiva portata di quella strana intesa. Ma i numeri no, i numeri non lasciano spazio a interpretazioni. La maggioranza è andata sotto, pesantemente. Frantumandosi in frammenti di polemiche, sospetti e debolezze. La trappola del Movimento cinque stelle, insomma, ha fatto da detonatore per le divisioni dei partiti alleati del governo. Crepe che erano state finora nascoste da una pesante mano di vernice, da qualche decorazione "romana" che sembrava aver messo tutti d'accordo.

E invece oggi, come a dicembre, il governo va sotto. Allora per le proroghe ai commissari delle Province. Oggi sulla norma che prevede l'istituzione delle città metropolitane. Allora, come oggi. In una giornata iniziata proprio nel segno di proroghe considerate "illegittime" se non fuorilegge dall'opposizione. Nomine non condivise con gli altri partiti, anche stavolta. E che probabilmente hanno riacceso qualche malumore interno alla maggioranza.

Ma il voto di oggi porta con sè un dato che adesso somiglia a una costante. Il voto segreto ha fatto venir fuori i franchi tiratori. Già, perché la "trappola" a cinque stelle, di un movimento che aveva manifestato il proprio sì alla norma ma anche i propri dubbi sulle città metropolitane ("che non hanno nulla in comune con quelle del resto d'Europa") era prevedibile. E comunque per "scattare" aveva bisogno proprio di una maggioranza debole. Inesistente.

Così, dopo il voto, ecco scatenarsi il "tutti contro tutti". Nonostante i tentativi rassicuranti del presidente dell'Ars Ardizzone: "Le città metropolitane verranno trattate all'articolo sette. La norma così com'è prevede la presenza di queste città all'interno dei liberi consorzi. Certamente, cambia molto, visto che finirebbero per decidere il destino degli stessi Consorzi". Una interpretazione che non ha convinto il presidente della prima commissione Antonello Cracolici, che già in Aula aveva protestato di fronte alla decisione di andare al voto sull'emendamento che porta la firma di Marco Falcone e che ha scatenato la bufera (secondo Cracolici sull'esistenza delle città metropolitane l'Aula si era già espressa, e positivamente, in occasione di un altro emendamento). Per il deputato del Pd, come detto, l'interpretazione del presidente dell'Ars pecca su un punto: "Le città metropolitane non possono fare parte di un Consorzio. Un comune può appartenere solo a un ente, non a entrambi". Ma a preoccupare maggiormente Cracolici è il dato politico: "Mi pare evidente" commenta amaro. Così come Giuseppe Lupo, secondo cui "il grave voto di oggi dimostra che la maggioranza traballa".

Difficile dargli torto. E del resto anche altri esponenti dei partiti alleati al governo erano scuri, scurissimi in volto, dopo il voto. "Adesso basta - ha commentato Lino Leanza, di Articolo 4 - qualcuno continua a nascondersi dietro il voto segreto o con la scusa di sbagliare le operazioni di voto. La maggioranza in Aula aveva i numeri per fare a meno dei voti dei grillini. E la bocciatura di oggi è gravissima, perché interviene su una delle reali novità di questa norma". E il capogruppo di Articolo 4 Luca Sammartino ribadisce: "Non è possibile che il disegno di legge della maggioranza venga, di fatto, riscritto in aula alla ricerca del voto dei 5 stelle. Quanto sta accadendo deve indurre a riflettere. La maggioranza a sala d’ercole non esiste. Se veramente si vuole fare questa riforma - prosegue - si stringano le fila e si voti compatti altrimenti il governo e la stessa maggioranza prendano atto responsabilmente della situazione creatasi e ne traggano le dovute conseguenze”.

Esultano ovviamente le opposizioni. Raggiante Nello Musumeci. "L'arroganza - ha detto - alla lunga non paga, di fronte al buonsenso e alla ragione. L'Ars ha affossato le Città metropolitane ed ha votato affinché i Liberi consorzi restino nove, tante quante sono le Province. Avevamo ragione noi quando, ad apertura di seduta, stasera, abbiamo chiesto un incontro di tutti i capigruppo. Ma Crocetta - prosegue Musumeci - ha voluto scegliere la strada dell'arroganza ed è stato sconfitto, col voto segreto, da una parte della sua stessa maggioranza. Lo stesso rinvio della seduta a domani conferma che il governo vive in un evidente stato confusionale". Secondo Toto Cordaro (Cantiere popolare), "l'unica soluzione adesso è quella di ridare il voto ai cittadini. Certo, - ironizza poi il parlamentare - se il gruppo del Pd intendeva dare un benvenuto al neo segretario regionale non poteva farlo in un modo migliore". Per Marco Falcone (Forza Italia) "il governo, in chiaro smarrimento, fugge via".

Ma i problemi del governo, come detto, sono anche e soprattutto quelli della maggioranza. Sottolineati oltre che da Cracolici e Lupo, anche dal deputato renziano del Pd Vullo: "Troppi mal di pancia nella nostra coalizione", ha detto. Mentre il capogruppo Beppe Picciolo attacca: "Con il voto segreto e le solite défaillance del sistema di voto che fa apparire incapaci i deputati, ci troviamo davanti ad un risultato che pone una seria riflessione sul come stare insieme in questa coalizione. Maggiore attenzione si deve richiedere ai deputati della maggioranza che si assentano dai lavori d'Aula e dovrà essere una questione politica che non si può più rinviare ". Peccato però, che tra gli assenti al voto risulti anche lui. Oltre, ad esempio, al capogruppo dell'Udc Lillo Firetto. Assenze al pulsante, ma non in Aula, che hanno suscitato ulteriori polemiche interne alla maggioranza.

Maggioranza implosa dopo lo scoppio, come detto, della trappola grillina. E agli ex amici del Movimento cinque stelle, ha riservato parole velenose anche il fresco socialista Antonio Venturino: "Usano il voto segreto per tradire la loro base, che si era espressa a favore della riforma. Si è trattato di un'azione appartenente a un vecchio modo di fare politica". "Il sì all'emendamento – replicano Salvatore Siragusa e il capogruppo Francesco Cappello - non sposta di una virgola il nostro atteggiamento sulla riforma, alla quale siamo favorevoli, sempre che vengano rispettati i capisaldi fondamentali perseguiti da sempre dal Movimento (la gratuità della partecipazione ai consorzi e l'eliminazione della politica) e che l'impianto non venga stravolto”. Ma la trappola, ormai, è scattata. E i frantumi della maggioranza, a tarda sera, dopo il voto, erano sparsi nella "stanza del governo" in un Palazzo dei Normanni silenzioso. Per l'ennesima riunione "chiarificatrice". Per provare a incollare, insomma, ciò che resta.

LIVE SICILIA

martedì 18 febbraio 2014

Barca su Governo Renzi: “Il Paese darà di testa”



FABRIZIO BARCA ‘PIZZICATO’ DA LA ZANZARA RIVELA IL SUO PENSIERO SUL
 NASCENTE ESECUTIVO NAZIONALE
“Tra trenta giorni, quando si capirà che non c’è niente, il Paese darà di testa”. 
E’ una delle considerazioni amarissime di Fabrizio Barca che durante lo scherzo architettato 
da La Zanzara su Radio 24 (sotto il link dell’audio) rivela di aver detto un “no secco” 
all’ipotesi di fare il ministro dell’Economia, e di subire pressioni continue per fare il
 ministro dell’Economia da Carlo de Benedetti, patron del gruppo L’Espresso:
“Ho parlato con Graziano (Del Rio, ndr) e pensavo 48 ore fa di averla stoppata
 questa cosa se fallisce anche questa è un disastro, però non possono pretendere che
 le persone facciano violenza ai propri metodi, ai propri pensieri, alla propria cultura. 
Quindi sono stato proprio chiarissimo evitiamo che nasca una cosa alla quale vengo 
forzato”.
“Poi prosegue Barca – è iniziata la sarabanda del paron della Repubblica che 
continua Lui non si rende conto che io più vedo un imprenditore dietro un’operazione 
politica più ho conferma di tutte le mie preoccupazioni. Un imprenditore che si fa sentire “.
Ma di chi parli, chiede il finto Vendola: “Del padrone della Repubblica, con un forcing 
diretto di sms, attraverso un suo giornalista, con una cosa che hanno lanciato sul sito ‘
chi vorresti come ministro dell’Economia’ dove ho metà dei consensi’.
Parlando con un finto Nichi Vendola, Barca si dice amareggiato e preoccupato per le 
evoluzioni politiche che hanno portato Matteo Renzi a Palazzo Chigi. La sua è una 
bocciatura totale:
“Nichi è una cosa che è priva di senso, non c’è un’idea, c’è un livello di avventurismo
 e personalismo mai visto. Non essendoci un’idea, siamo agli slogan Questo mi rattrista, sto
 male, sono preoccupatissimo perché vedo uno sfarinamento veramente impressionante”.
“Sono colpito -dice ancora Barca – dall’insistenza, il segno della loro confusione e 
disperazione e poi in tutto questo ovviamente io dovrei essere quello tuo e ovviamente 
c’è pure la copertura a sinistra sono fuori, sono fuori, sono fuori di testa!”.

lunedì 17 febbraio 2014

Province, l'ultimo pasticcio Da due giorni sono senza guida

Le proroghe dei commissari sono scadute il 15 febbraio. Da quel momento, gli enti non hanno un vertice. "Per qualche giorno - spiega l'assessore Valenti - ci penserà il resto della burocrazia". Ma il futuro è sempre più incerto. Domani il ddl arriva in Aula insieme a centinaia di emendamenti. E il pericolo di nuove elezioni si fa sempre più concreto.
commissari, crocetta, d'alì, falcone, governo, liberi consorzi, Province, valenti, Politica
PALERMO - Il termine del 15 febbraio non era perentorio, per carità. Ma le Province, da due giorni sono senza guida. L'ultimo “pasticcio” del governo ha lasciato gli enti senza un capo. Senza un commissario. Ciascuno dei nove ha infatti esaurito il proprio compito. La proroga è scaduta. A casa.

Ma adesso, chi guida? Le Province non hanno un vertice. Sono spuntate. A reggerle, come spiega l'asssessore regionale alla Funzione pubblica Patrizia Valenti è il resto della burocrazia. “Sono sempre in carica – dice infatti – i dirigenti generali e i segretari generali. Per qualche giorno potranno pensarci loro”. Per qualche giorno. Ma quanti giorni? Perché il punto interrogativo che pende sulla “epocale” riforma del presidente Crocetta è sempre più grande. Domani il ddl torna in Aula. Appesantito di un corredo fatto di 400 emendamenti dei deputati. Ai quali si sono aggiunti almeno altrettanti subemendamenti. E comunque, dopo l'eventuale approvazione, servirà attendere la pubblicazione della norma in Gazzetta ufficiale. "Qualche giorno”, insomma, potrebbe essere un periodo molto lungo.

Nel frattempo, le Province vanno avanti d'inerzia. Senza sapere nemmeno in quale direzione.“Entro questa settimana – spiega infatti l'assessore Valenti – capiremo meglio che tipo di nomine dovremo fare”. E nella frase del responsabile in giunta degli Enti locali c'è appunto l'interrogativo che pesa sul ddl. Che fine faranno le Province? “Una cosa – spiega sempre la Valenti – è certa: presto dovremo operare le nuove nomine”. Nuovi commissari, insomma. Questo è il destino prossimo delle Province. Ma la “tipologia” di commissario potrebbe mutare. Attribuendo alla vicenda contorni paradossali.

Se infatti verrà approvato il ddl che prevede il passaggio ai Liberi consorzi e il contestuale trasferimento di competenze e funzioni dai vecchi ai nuovi enti (senza contare l'elezione degli organi), serviranno mesi – se non anni – prima che il processo si compia del tutto. Fino ad allora, a guidare saranno i commissari. Ma anche in caso di ko della riforma, il destino immediato è quello del commissariamento. Sebbene di durata certamente inferiore.

Già, perché lo spauracchio delle nuove elezioni, oltre a rappresentare il segno vero di un fallimento, verrebbe innescato da un preciso meccanismo. Smentita, infatti, l'ipotesi secondo cui già il 15 febbraio sarebbe scattata l'indizione dei comizi elettorali ("non un limite perentorio", aveva ribadito a Sala d'Ercole l'assessore Valenti), il termine non potrà però protrarsi oltre metà aprile. Il periodo per l'indizione eventuale delle nove – e incredibili, a questo punto – elezioni provinciali, è racchiuso infatti tra la prima data utile del 20 aprile e l'ultima del 15 giugno.

L'indizione dei comizi, per legge, deve essere effettuate almeno sessanta giorni prima. Quindi tra il 20 febbraio e il 15 aprile. E in caso di elezioni, il governo potrebbe pensare di fissarle in contemporanea con le elezioni europee del 25 maggio. In quel caso, però, la giunta di governo dovrà prima deliberare la data delle nuove elezioni, quindi indire i comizi. A questo punto, entro il 25 marzo.

Fino alle (eventuali) elezioni, comunque, resteranno in sella i commissari. Magari molti di quelli che hanno dovuto lasciare i propri uffici 48 ore fa. “Nessuno ci impedisce – dice infatti l'assessore Valenti – di confermare quelli uscenti, sia che si vada verso i liberi consorzi sia in caso di elezioni. A parte qualche caso, almeno. Il commissario della Provincia di Trapani, per esempio, è stato chiamato a Roma per un importante incarico. Lui andrà sostituito”.

Ma intanto, le Province vanno avanti senza pilota. E i dubbi, già sollevati durante l'ultima seduta d'Aula, si sono trasformati in critiche feroci. “Da ieri - ha detto ad esempio il deputato regionale di Forza Italia, Marco Falcone - gli stessi commissariamenti delle province cosi come nominati ad inizio anno, diventano illegittimi. Infatti, essendo scaduti i termini della legge 7/2013, non è possibile prorogare gli stessi commissari con i medesimi poteri, ma serve un nuovo atto di giunta che conferisca nuovi poteri, straordinari, teoricamente, nelle more di arrivare al voto”.

Ancora più duro il senatore del Nuovo centrodestra, Antonio D'Alì, che ha parlato di “situazione paradossale": "Scaduto il termine di vigenza dei commissari a suo tempo nominati - ha detto infatti - nessuno ha provveduto a prorogarne la nomina o ad indicarne dei nuovi, quindi le province siciliane si trovano di fatto nell'incredibile situazione dell'assenza giuridica e fisica del vertice istituzionale”.

Nelle stesse ore, però, quasi in un clima surreale, va avanti la consultazione online lanciata dal governo regionale sul futuro delle Province: “Abbiamo già concluso – racconta Patrizia Valenti – una prima consultazione, alla quale hanno preso parte oltre seimila persone. E l'elemento che interessa di più è quello riguardante le funzioni da attribuire ai liberi consorzi, mentre il modello e gli organismi che lo devono comporre interessa molto di meno ai cittadini che hanno risposto”.

Intanto, altri cittadini in queste ore hanno invaso le caselle di posta delle redazioni giornalistiche con decine di email. Si tratta dei dipendenti della Provincia di Caltanissetta. Evidentemente minacciati dalla nascita del libero consorzio di Gela, fortemente “sponsorizzato” dal governatore. La mail è rivolta di deputati regionali: “Vi invitiamo – scrivono gli impiegati nisseni - a non approvare gli emendamenti presentati dal governo al disegno di legge sui Consorzi esitato dalla I Commissione. Più si fraziona la governance del nostro territorio più aumenta la spesa pubblica che graverà sui siciliani, già allo stremo di ogni possibile limite di sopportazione economica. Desistete dalla pericolosa strada – concludono - intrapresa dal governatore”. Ma a prescindere dalla strada intrapresa, una cosa è certa: in questo momento, non guida nessuno.

Da LIVESICILIA

mercoledì 12 febbraio 2014

L’ITALIA , l’UNIONE EUROPEA, la TROIKA, il FISCAL COMPACT e la strada per essere dichiarata FALLITA !




Eravamo una volta orgogliosi di avere una Patria che rappresentasse a gli occhi del mondo intero la culla della Cultura, un Paese ammirato per la capacità imprenditoriali e per le capacità ineguagliabili nel manifatturiero, la terra delle arti da tutti ammirata e rispettata. Ci ritroviamo oggi nel più lungo e buio tunnel che un Popolo potesse immaginare. I cittadini sotto soglia di povertà sono stimati in circa quattro milioni, la classe media distrutta dalla pressione fiscale sempre più soffocante, un italiano su quattro non arriva a fine mese, la disoccupazione di padri e madri di famiglia è alle stelle e i giovani senza un lavoro possono essere quantificati in generazioni. Sembra lo spaccato di un film drammatico e invece a riflettere su quello che ci aspetta è solo l’inizio . Le politiche di austerity imposte dall’Unione Europea consegnate alla cosi detta troika l’organismo composta da UE, BCE e FMI che ne sovraintende l’applicazione dei programmi nei paesi che ne sono sottoposti non sono finite. Ci aspetta ancora il colpo di grazia chiamato Fiscal Compact che prevede la riduzione del debito di circa 40 miliardi l’anno per un ventennio. Una verità assurda, ma lucida quando basta per ridurre il Bel Paese in una catastrofe che non ha precedenti nella sua storia contemporanea . Le reazione delle diverse istituzioni Italiane negli ultimi anni sono state confuse e poco efficaci, governi forti, governi presidenziali, governi delle larghe intese e cosi via ma nella realtà il baratro è sempre più vicino. Questo a detta dei più attenti è dovuto dal fatto che nella realtà l’Italia è in una posizione di ostaggio nei confronti di altre nazioni europee con a capo la Germania. Con queste condizioni e queste regole le sole istituzioni italiane non sono in condizioni di portare il Paese fuori dal tunnel. Non vi sono riforme che bastino , non vi è Leader o coalizione forte che basti per riuscire a mettere sul campo quello che serve per far ripartire un’economia, che ha allentato la cinghia già da un bel pezzo, come la nostra. Continuare a cercare la soluzione con lo stesso metodo usato fino ad ora può solo aggravare ulteriormente le cose. I debiti li paga chi trova la strada per ritornare a produrre ricchezza, e per fare questo vi è la necessità di liberare risorse da indirizzare nei settori produttivi del paese. Bisogna che vengano attivate quelle leve di cui l’Italia ne è rimasta priva proprio per far parte dell’Unione Europea, politiche monetarie, rapporto di indebitamento che non tiene conto delle potenzialità e della diversità tra Nazioni, rigidità della politica inflattiva ne sono l’esempio. Siamo in Europa sotto le mani di burocrati troppo influenzati da soggetti che non sono affatto terzi, la TROIKA ha in seno alla sua composizione troppi lati oscuri e troppo interessi di parte da preservare,  e l’Italia se vuole riaccendere l’ardore di Patria  dei propri figli non può  e non deve permetterlo. 

Gaetano Amenta

Bambini soldato, più di 250 mila risultano torturati,stuprati e usati come scudi umani !

ROMA - Il 13 febbraio si celebra la giornata mondiale contro l'utilizzo dei minori in guerra, ma nonostante il monito delle Nazioni Unite contro questa barbarie e nonostante siano ben 153 i paesi che hanno ratificato il Protocollo sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza (strumento giuridico ad hoc, secondo cui nessun minore di 18 anni può essere reclutato e/o utilizzato in guerra né dalle forze armate di uno Stato né da gruppi armati), il proliferare di scontri nel mondo impone maggiore consapevolezza e controllo sull'utilizzo dei bambini in guerra.

6.000 bambini sfruttati in Congo. I rapporti delle Nazioni Unite sul reclutamento e l'impiego di bambini da parte di gruppi armati e milizie filo-governative in Congo sono allarmanti. I bambini, se non muoiono nei combattimenti, vengono uccisi dalla droga, dalla violenza e dagli abusi sessuali subìti dai loro superiori dei gruppi armati. Quasi 6.000 sono i bambini sfruttati in Congo, di cui circa 30 sono bimbe, tutti reclutati nelle forze armate e gruppi armati. Circa l'80% dei casi si concentra nelle zone di Nord Kivu e Sud Kivu.

Afghanistan, sodati a 8 anni. In Afghanistan sono oltre 70 i casi di arruolamento e impiego di bambini in guerra, molti dei quali di appena 8 anni. La maggior parte vengono destinati alla costruzione di armi e ordigni esplosivi (i bimbi hanno le mani piccole) e per il trasporto di provvigioni. Almeno 10 sono stati reclutati da gruppi armati per condurre attacchi suicidi.

Lo "storico" rilascio dei piccoli soldati birmani.
 A Rangoon, il 18 gennaio 2014 l'esercito di birmano ha consentito la liberazione di 96 ragazzi, reclutati dall'esercito in tenera età. Lo ha annunciato l'Onu, riconoscendo in quest'azione uno "storico passo" verso la fine dell'utilizzo dei bambini soldato in tutto il mondo. Questo riscatto è il più importante da quando le Nazioni Unite e il governo birmano hanno firmato, nel giugno e 2012, un piano di azione per impedire il reclutamento di bambini e consentire il ritorno alla vita civile dei minori già arruolati. Fino a oggi sono 272 gli ex bambini soldato rilasciati alla vita civile in Birmania.

I bambini siriani: arrestati, torturati e scudi umani
. Nella violentissima guerra siriana, i gruppi armati di opposizione hanno reclutato e utilizzato bambini, sia in ruoli di supporto che per i combattimenti. Mentre non sono disponibili informazioni sul reclutamento di bambini da parte di forze governative, lo stesso esercito nazionale è stato riconosciuto responsabile di arresto, detenzione arbitraria e tortura di minori e molti sono stati i bambini utilizzati come scudi umani

In Sud Sudan il maggior numero di bambini reclutati.  Non si hanno informazioni precise, né tantomeno chiare sull'uso di minori nella guerra del Sud Sudan, ma le Nazioni Unite hanno verificato il reclutamento e l'impiego di 252 ragazzi tra i 14 ei 17 anni di età. Inoltre, è stato registrato lo sfruttamento di bambine e ragazze a fini di violenza sessuale.

Le iniziative per contrastare il fenomeno. La Coalizione italiana Stop all'Uso dei Bambini Soldato (composta dalle Ong Alisei, Cocis, Coopi, Intersos, Save The Children Italia, Telefono Azzurro, Terre des Hommes Italia e Unicef Italia), è nata con l'obiettivo di sensibilizzare e far pressione per la ratifica globale e il rispetto del Protocollo Opzionale. In questi giorni la Coalizione di Ong promuove il suo sito, uno spazio interamente dedicato al tema in cui è possibile trovare informazioni e approfondimenti e una sezione con la documentazione internazionale sul fenomeno. Per celebrare la giornata internazionale contro l'impiego dei bambini come soldati, si è voluto dar vita al Virtual Red Hand Day:  il logo della Coalizione è una mano rossa e verrà chiesto agli utenti che venga adottata, suscitando così  la curiosità dei naviganti a chiedersi il perché di questa immagine e a visitare il sito della Coalizione per informarsi sul pressoché sconosciuto fenomeno dei bambini soldato.


Da Repubblica

sabato 8 febbraio 2014

7,5 miliardi di euro regalati o no, dal governo Letta alle banche ? Cerchiamo di capire come stanno veramente le cose !



banca-italia
La questione Banca d'Italia

Proviamo a capire se il decreto approvato in aula è un regalo del governo alle Banche come dice il 


M5S 




La sera di mercoledì 29 gennaio, dopo una movimentata giornata alla Camera – il giorno dell’ormai famosa “tagliola” o “ghigliottina” – il Parlamento ha convertito in legge un decreto che riguardava temi diversi: i principali erano la rivalutazione delle quote della Banca d’Italia e l’abolizione della seconda rata dell’IMU.


La minoranza parlamentare, e in particolare il Movimento 5 Stelle, si è opposta molto duramente alle novità sulla Banca d’Italia. Secondo alcuni si tratta del regalo di un sacco di soldi per le banche private; secondo altri si apre alla possibilità che la Banca d’Italia venga comprata da qualche società straniera: come vedremo al momento non è possibile dire quanto e se ci guadagneranno le banche, mentre la seconda paura è del tutto ingiustificata. Secondo molti commentatori, comunque, la rivalutazione delle quote è stata in effetti quantomeno avventata, se non proprio sbagliata: compiuta solamente per trovare in fretta i soldi per abolire l’IMU e con possibili conseguenze difficili da gestire. Il blog noiseFromAmerika, curato da economisti italiani che vivono soprattutto negli Stati Uniti, l’ha definita “una porcata”. Per capire bene cosa è cambiato e quali sono le incognite, bisogna cercare di capire come funzionava fino a ieri la Banca d’Italia e cosa modifica il decreto.

Com’era ieri
Dell’ipotesi di rivalutare le quote della Banca d’Italia si è parlato con una certa insistenza a partire dai primi di novembre 2013, quando è cominciato a diventare pressante il problema di trovare i soldi per l’abolizione della seconda rata dell’IMU.
Alla base di tutto c’è il fatto che il capitale nominale della Banca d’Italia era fino a ieri di soli 156 mila euro: 300 milioni delle vecchie lire che furono versati nel 1936 dagli istituti di credito italiani, allora pubblici. Quegli istituti di credito sono oggi le banche private italiane e una sessantina di loro, insieme a qualche assicurazione e a INAIL e INPS, sono ancora oggi formalmente i proprietari della banca (l’elenco completo e la distribuzione delle quote è qui). A causa di una serie di acquisizioni e cessioni, oltre il 50 per cento delle quote è in mano ai grandi gruppi Intesa e Unicredit.
Nonostante la proprietà formale da parte di banche e assicurazioni – che periodicamente genera diverse teorie complottiste – più il 5,66 per cento ciascuno per INAIL e INPS, la Banca d’Italia è un istituto di diritto pubblico, in cui le banche private non hanno alcun controllo di gestione, che rimane interamente al Tesoro e al Parlamento. Non possono neppure vendere le proprie quote. Le banche private hanno, in concreto, solo qualche carica di controllo in organismi di vigilanza come il Consiglio superiore. Anche se la formazione storica delle banche centrali da parte di diverse banche private è comune ad altri paesi del mondo, la situazione è comunque anomala e nel 2005 si stabilì che, entro tre anni, le quote sarebbero dovute essere trasferite allo Stato (scadenza che poi, in concreto, venne ignorata).
La Banca d’Italia guadagna?
Sì, la Banca d’Italia ogni anno ha dei guadagni, che in parte gira al Ministero del Tesoro e in parte accantona nelle riserve. Una delle fonti di guadagno – anche se non l’unica – è un aspetto tecnico dell’emissione della moneta che si chiama “signoraggio” ed è al centro di una delle più famose teorie del complotto mondiali. Anche se sarà difficile convincervi del contrario, il signoraggio non è alla base di tutti i mali del mondo, ma ugualmente porta dei soldi alle banche centrali (i meccanismi precisi del suo funzionamento sono un’altra storia, che trovate per esempio qui).
Per dare una cifra, la media dei trasferimenti di Bankitalia al Tesoro negli anni 2001-2011 – che comprende i proventi da signoraggio, ma anche molto altro – è stata di 370 milioni di euro l’anno, mentre cifre ancora superiori sono state accantonate. L’euro non ha modificato molto queste quantità, anche se c’è stata una riduzione.
Qualcuno potrebbe pensare – e c’è chi lo ha fatto – che, dato che la proprietà formale della Bancad’Italia è degli istituti privati, questi traggano da decenni grandi guadagni dal signoraggio e dalle altre attività economiche della banca centrale. Non è così, al momento, ed è un punto molto importante: secondo lo statuto della Banca d’Italia i guadagni sono ripartiti tra i proprietari fino a un massimo del 10 per cento circa del capitale nominale, che, lo ricordiamo, è di soli 156.000 euro.
Ogni anno quindi la sessantina di banche che possiede la Banca d’Italia si deve spartire poche decine di migliaia di euro in base al capitale che detengono (15.600 euro nel 2006, per esempio). A questo si aggiunge però un altro 4 per cento massimo, calcolato però sul totale delle riserve. Questa aggiunta fa arrivare i trasferimenti dalla Banca d’Italia alle banche private a cifre molto più consistenti, anche se quasi irrilevanti per il bilancio di un istituto di credito: negli ultimi tempi è stato intorno ai 67 milioni l’anno, di fronte però a un utile netto della banca centrale di 1,1 miliardi di euro. Con un esempio concreto: Intesa possiede il 30 per cento delle quote della Banca d’Italia e ha ricevuto nel 2012 circa 20 milioni di euro. Nello stesso anno il suo bilancio dichiarava utili per 1,6 miliardi. Maggiori informazioni sui guadagni della Banca d’Italia e su come vengono distribuiti si trovano in questo postdi Mario Seminerio.
Che cosa cambia con il decreto contestato
E veniamo al decreto convertito in legge dalla Camera nella famosa seduta della “tagliola”, mercoledì 29 gennaio. Si parlava almeno dal 2007 – governo Berlusconi, tra i più grandi sostenitori Renato Brunetta – di rivalutare le quote della Banca d’Italia. Secondo una stima della stessa Banca d’Italia, che ha fatto studi per diverso tempo su questa possibilità, il valore poteva essere alzato da 156 mila euro a 5-7 miliardi. Il decreto lo fissa a 7,5 miliardi di euro (nota a margine: Renato Brunetta è contrario, perché da tempo sostiene che il valore debba essere più alto).
Quei 7,5 miliardi di euro non dovranno essere versati concretamente alle banche, e per questo il Ministero dell’Economia ha potuto scrivere questa nota negando che sia stato un “regalo”: la sessantina di banche e assicurazioni se li scriveranno nel bilancio, ciascuna secondo la propria quota, e ci avranno guadagnato in solidità patrimoniale davanti alla Banca Centrale Europea. Un guadagno “astratto” che, in questo momento di crisi per il settore bancario, è comunque molto conveniente.
Perché fare tutto questo, e proprio ora? Nonostante l’operazione sia contabile, senza trasferimenti di liquidità o di altre attività alle banche, queste devono pagare tasse sulle cosiddette plusvalenze di questa operazione. Lo Stato ne riceverà quindi un gettito fiscale una tantum di oltre un miliardo di euro: e questi soldi serviranno a pagare parte della seconda rata IMU.
Tutto qui?
Cambiano altre due cose di un certo rilievo. La prima è che le quote diventano trasferibili, cioè teoricamente comprabili e vendibili in base al valore stabilito dal mercato. Per questo motivo alcuni hanno sostenuto che sia possibile dare la proprietà della Banca d’Italia a enti stranieri. In realtà questa possibilità è esplicitamente esclusa dal decreto, che stabilisce la necessità per i proprietari della banca di avere “sede legale e amministrazione centrale in Italia”.
La seconda è che viene fissato un limite del 3 per cento per la partecipazione al capitale. Le banche o le assicurazioni che hanno più del tre per cento dovranno vendere la parte eccedente. Non è ancora del tutto chiaro come verrà venduta questa parte eccedente, ma il decreto stabilisce un periodo di tre anni in cui le quote potranno essere ricomprate dalla Banca d’Italia. Quanto care non si sa, perché la cifra dipenderà dai dividendi che la Banca d’Italia deciderà di pagare: in questa eventualità, che rimane un’eventualità, ci sarebbe un effettivo trasferimento di denaro dalla Banca d’Italia ai proprietari delle quote.
Il tetto massimo dei dividendi, che si ottengono dagli utili netti, è comunque stabilito al 6 per cento del valore del capitale. Dato che questo è diventato di 7,5 miliardi di euro, il massimo teorico che laBanca d’Italia pagherà in dividendi è 450 milioni di euro l’anno, ma anche in questo caso non è chiaro quanti soldi andranno concretamente, in futuro, a banche e azionisti privati.
Quali sono i problemi
Le motivazioni che sono alla base del decreto sembrano in primo luogo legate a migliorare i bilanci delle banche italiane e a ricevere subito i soldi per abolire la seconda rata dell’IMU, senza tenere troppo in conto i problemi che potrebbero venire in futuro dall’operazione, per esempio per quanto riguarda i dividendi. Lo spiega un post di noiseFromAmerika:
Il provvedimento prende almeno tre piccioni con una fava: le banche si ricapitalizzano semplicemente con un tratto di penna; riceveranno trasferimenti monetari, almeno potenzialmente tramite maggiori dividendi oltretutto immediatamente liquidabili; per un anno il governo riceve in cambio un introito tramite la tassazione delle plusvalenze.